Negli ultimi tempi ho ripensato molto a mio padre, scomparso da tempo. Sto scrivendo una biografia della sua vita per una mostra organizzata dall'Exilbibliothek (Biblioteca degli esuli) di Vienna, in onore di quello che sarebbe stato il suo centesimo compleanno. In realtà ho pensato spesso a lui anche perché avrebbe potuto comprendere perfettamente la posta in gioco di questi tempi.
Nato in quella che allora era la Polonia austriaca il 23 aprile 1910, mio padre venne al mondo proprio alla fine degli "Anni Zero" del ventesimo secolo. Trasferitosi a Vienna con i suoi genitori nel 1914, visse la prima guerra mondiale, l'inflazione galoppante dei primi anni Venti e la Grande Depressione, prima di partire alla volta di Londra nel 1937 poco prima dell'arrivo di Hitler. Lì sopravvisse al campo di prigionia dove fu recluso come nemico in terra straniera, e alla seconda guerra mondiale. Quasi tutti i suoi parenti - a eccezione dei suoi famigliari più stretti - rimasero uccisi nell'Olocausto. Lo stesso accadde a mia madre, che scappò dai Paesi Bassi nel maggio 1940 a bordo di un peschereccio a strascico con i suoi parenti più stretti, lasciando dietro di sé tutti gli altri membri della sua famiglia che furono spazzati via dall'Olocausto.
Mio padre, nato nel 1910, intellettuale dell'Europa centrale - commediografo, giornalista, documentarista e autore di sceneggiati televisivi nella sua lingua madre, il tedesco - visse indiscutibilmente in un'epoca di cambiamenti storici. Dei molteplici insegnamenti che ho ricevuto da lui il più importante è anche il più indubitabile: la civiltà è fragile quanto il cristallo. Oltretutto, quando si precipita nel caos, quasi sempre emerge il peggio della natura umana, così come accadde con conseguenze catastrofiche durante la sua vita.
A livello emozionale, queste idee hanno influito su come ho considerato la catastrofe finanziaria degli ultimi anni.
Sono convinto che senza gli interventi politici ai quali abbiamo assistito, il mondo sarebbe precipitato in una depressione molto più grave.
La classe politica non poteva restarsene con le mani in mano mentre una simile catastrofe aveva luogo. In tempi così non avremmo potuto dare per scontato nemmeno che la civiltà stessa potesse sopravvivere. Mai prima di questa occasione ho percepito tutta la verità delle parole che John Maynard Keynes pronunciò quando brindò «agli economisti, che sono i fiduciari non della civiltà, bensì della possibilità stessa che la civiltà esista».
Dobbiamo affrontare sfide considerevoli in un'epoca di grandi trasformazioni globali. In qualche modo dovremo riuscire a sostenere un'economia globale dinamica, promuovere lo sviluppo, assicurare la sostenibilità ambientale e garantire relazioni internazionali pacifiche e imperniate sulla collaborazione.
Tutto ciò richiederà un'arte di governo eccellente e della miglior specie. Come ho già fatto presente la settimana scorsa, credo che il presidente Obama capisca quanto meno la natura delle sfide che dobbiamo affrontare. Non mi è altrettanto chiaro se il presidente - o chiunque altro - comprenda quanto sarà difficile farlo concretamente.
Per noi economisti, la maggior parte di queste responsabilità è ben al di sopra delle nostre "competenze contrattuali". Non ne so molto della possibilità di riuscire a evitare che le armi nucleari finiscano nelle mani di terroristi o di regimi terroristi, o dell'eventualità di poter raggiungere un accordo efficace sulle emissioni di CO2 (che abbia senza dubbio alcuno le sue premesse in tasse nazionali da far pagare alla popolazione, più che nelle complessità di un regime globale "cap-and-trade").
Sono però sicuro che otterremo ben poco di duraturo se l'economia mondiale non ritornerà in salute. Questo - come avrebbe sicuramente detto Keynes - è il contributo che gli economisti devono essere in grado di dare. A che altro potrebbero essere utili, altrimenti? Ok, so già la risposta, grazie.
In un articolo pubblicato sul Financial Times questa settimana, Arvind Subramanian del Peterson Institute for International Economics, ha sostenuto che la scienza economica si è riscattata salvando l'economia mondiale dalla crisi. Sono d'accordo, ma solo fino a un certo punto. Molti economisti sostengono che le misure varate non erano necessarie, in qualche caso erano perfino dannose.
Per di più, questi interventi straordinari non hanno riportato il paziente in salute: hanno soltanto evitato che morisse. Adesso, pertanto, dobbiamo curare cinque condizioni croniche, invece di limitarci a sopravvivere al grave infarto dell'anno scorso.
Primo: abbiamo la forza costante della recessione dei bilanci negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in un gran numero di altri importanti paesi ad alto reddito. È altamente verosimile che le parti pesantemente indebitate dei settori privati di questi paesi cercheranno di ridurre il loro indebitamento e di aumentare i risparmi per un periodo alquanto prolungato.
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